Capillaria philippinensis - Scheda parassitologica e approfondimenti

2022-09-11 08:11:45 By : Mr. shunting T

Capillaria philippinensis è un parassita appartenente al phylum dei nematodi, termine con cui si indicano i vermi di forma cilindrica, in contrapposizione a quelli a nastro (platelminti); ha come serbatoi primari gli uccelli piscivori, mentre negli esseri umani raffigura l’agente eziologico della capillariasi intestinale, una malattia zoonotica endemica nelle Filippine e in Thailandia. Alcuni casi sporadici sono stati documentati anche in Cina, in Egitto, in Iran, in Giappone, in Corea e a Taiwan.

La prima descrizione del nematode risale agli sessanta grazie a tre scienziate (May Belle Chitwood, Carmen Valesquez e N. G. Salazar), le quali lo scovarono in un uomo proveniente da Ilocos (un’isola delle Filippine), che era stato ricoverato al Philippine General Hospital a maggio 1963. Il paziente lamentava sintomi come ascite, deperimento e cachessia, che erano iniziati a settembre 1962. Al momento del ricovero in ospedale, il paziente soffriva di diarrea cronica incurabile da quasi un mese, e morì una settimana dopo. L’esame autoptico permise di osservare la presenza di parassiti nell’intestino tenue e nel crasso. Il lavoro di Chitwood, Valesquez e Salazar venne pubblicato nel 1968 sulla rivista The Journal of Parasitology.

Il verme adulto di C. philippinensis ha delle somiglianze con quello di Trichinella spiralis, anche se dal punto di vista biologico è più vicino a Strongyloides stercoralis, dal momento ha un ciclo di riproduzione autoinfettivo in cui le larve possono svilupparsi in adulti senza lasciare l’ospite. A livello morfologico è caratterizzato da un corpo sottile che ricorda un capillare, è filamentoso all’estremità anteriore, mentre posteriormente è più spesso e rigonfio, ed è rivestito da una cuticola quasi liscia (Fig. 1). La lunghezza è tra 2,3 e 3,17 mm nel maschio e tra 2,8 e 4,3 mm nella femmina.

L’apertura orale, simile a una fessura, è orientata in maniera dorsoventrale e circondata da due labbra rialzate. Inoltre, è attorniata da dodici piccole papille cefaliche organizzate in due piccoli cerchi, ognuno contenente sei papille; l’esofago è corto, allargato nella metà posteriore, e presenta una serie di ghiandole unicellulari disposte in fila (sticociti). L’esofago con tale caratteristica prende il nome di sticosoma.

Per quanto concerne gli organi sessuali, la femmina ha la vulva posizionata dietro l’esofago, con il labbro anteriore leggermente sporgente (Fig. 2A); può essere ovipara o vivipara, in quanto l’utero può contenere uova o larve (Fig. 3B). Il maschio è distinto dalla presenza di spicole copulatorie rivestite da una guaina, necessarie per dilatare la vulva e iniettare lo sperma (Fig. 2B).

Le uova hanno una forma che evoca un’arachide, e si suddividono in due gruppi, ovvero uova dal guscio spesso e uova dal guscio sottile (Fig. 3A); le prime appaiono giallastre-marroni, misurano tra 40 e 48 µm in lunghezza e 17-20 µm in larghezza, e presentano delle spine bipolari appiattite. Le seconde sono traslucide o giallastre, con delle spine arrotondate che protrudono da entrambi i poli, sono lunghe 38-45 µm e larghe 18-20 µm.

C. philippinensis può svolgere il proprio ciclo biologico in maniera indiretta (implica un organismo ospite intermedio) e diretta (si completa in un solo ospite). Il ciclo indiretto comincia, di solito, nel momento in cui le uova non contenenti l’embrione (non embrionate) vengono rilasciate nell’ambiente da un uccello piscivoro o da un mammifero attraverso le feci. Nel giro di cinque o dieci giorni, nelle uova si sviluppa l’embrione, quindi diventano embrionate; quando vengono ingerite dai pesci d’acqua dolce, si schiudono e liberano le larve, che penetrano l’intestino e migrano dei tessuti. Se un ospite definitivo, come un uccello piscivoro o un mammifero, mangia un pesce d’acqua dolce infetto, le larve maturano in vermi adulti, si stabilizzano nell’intestino tenue, scavano nella mucosa e si accoppiano.

Nel caso degli uccelli, si verifica semplicemente la produzione delle uova che vengono poi eliminate con le feci. Nel caso dei mammiferi, invece, può avvenire il ciclo diretto, poiché le uova possono passare da non embrionate a embrionate sia nell’utero del nematode che nell’intestino dell’ospite dopo l’espulsione. A questo punto si aprono e liberano le larve, le quali reinfettano l’intestino e causano un’autoinfezione interna. Tale processo può condurre a una condizione di iperinfezione, distinta da un numero massivo di vermi adulti nell’intestino, con conseguente degenerazione della mucosa e della sottomucosa. Il ciclo vitale del parassita è schematizzato in figura 4.

Negli esseri umani la capillariasi intestinale si manifesta come un’enteropatia caratterizzata dai seguenti sintomi: dolori addominali, diarrea, vomito, borborigmi, calo ponderale, debolezza, malessere, anoressia ed emaciazione. In aggiunta a ciò, l’infezione può indurre anche perdita massiva di proteine ed elettroliti (con conseguente ipoalbuminemia, iponatriemia, ipokaliemia e ipocalcemia), malassorbimento di lipidi e zuccheri. In assenza di una terapia, l’infezione comporta grave denutrizione, edema degli arti inferiori, cachessia, cardiomiopatia e morte.

Descriviamo un caso di capillariasi intestinale avvenuto in Cina e pubblicato su BMC Research Notes nel 2012. Una donna di 33 anni, proveniente dalla periferia di Danzhou, in provincia di Hainan, soffriva di una diarrea ricorrente e acquosa, associata a coliche, da 11 mesi. Oltre a ciò, aveva perso 12,5 kg. Venne ricoverata in un ambulatorio e in un ospedale di Danzhou, e fu sottoposta a un trattamento per la diarrea. La diagnosi, la terapia e gli esami di laboratorio non erano chiari, e poiché i sintomi non si risolvevano, la paziente fu trasferita al People’s Hospital di Hainan nell’aprile del 2010.

L’esame clinico evidenziò disidratazione moderata, pallore e gonfiore degli arti inferiori, nessun ingrossamento del fegato e della milza. I livelli di proteine sieriche e di albumina erano bassi, e la proteinuria non era rilevabile. La radiografia toracica e l’esame addominale con gli ultrasuoni non mostrarono alcuna anomalia, mentre dalla gastroscopia i medici notarono edema, iperemia ed erosione superficiale dell’antro gastrico. L’analisi delle feci, eseguito presso il Dipartimento di Parassitologia dell’Ospedale Universitario di Hainan, rimarcò la presenza di uova a forma di arachide e spine bipolari, identificate come appartenenti a C. philippinensis; in più venne individuato anche un maschio adulto e cisti di Entamoeba coli.

La donna dichiarò che da marzo ad aprile 2009 aveva mangiato sashimi contenente Misgurnus anguillicaudatus (cobite di stagno orientale), allo scopo di trattare una stitichezza che durava da 7 anni. Un mese dopo erano comparse la diarrea e le coliche. Grazie alla terapia con albendazolo, la paziente guarì completamente.

La diagnosi di capillariasi intestinale consiste nell’analisi della biopsia dell’intestino tenue e/o nell’osservazione microscopica delle feci. Nell’indagine coproparassitologica è fondamentale distinguere le uova di C. philippinensis da quelle di T. trichiura, che sono leggermente più grandi e hanno delle spine più sporgenti alle estremità. Nei pazienti che hanno un’iperinfezione, questa metodica è la più adeguata, in quanto mostra un’abbondanza di uova e vermi adulti.

La biopsia permette di apprezzare l’atrofia dei villi intestinali, l’infiltrazione di plasmacellule ed eosinofili e la presenza di vermi adulti (Fig. 5). Il prelievo del tessuto si effettua mediante endoscopia, che consente di individuare aree della mucosa con erosioni, perdita di villi ed essudato biancastro (Fig. 6).

I due metodi appena descritti vengono associati all’anamnesi, all’esame obiettivo e ad analisi di laboratorio come l’emocromo, il dosaggio dell’albumina, degli elettroliti, dell’urea e della creatinina.

Ulteriori saggi per la diagnosi di infezione da C. philippinensis sono la ricerca di antigeni del nematode presenti nelle feci mediante il saggio enzimatico immuno-assorbente (ELISA) diretto, e la rilevazione del DNA del parassita nelle feci tramite PCR (reazione a catena della DNA polimerasi). Il primo è sensibile ma non specifico, mentre il secondo offre risultati soddisfacenti sia in termini di sensibilità che di specificità.

Il trattamento della capillariasi intestinale si basa sull’impiego di farmaci come mebendazolo 200 mg o albendazolo 200 mg, entrambi da prendere due volte al giorno per venti giorni. Sia l’uno che l’altro si somministrano per via orale e agiscono legandosi alla proteina tubulina del nematode, impedendo la divisione cellulare. Al fine di prevenire la patologia, la strategia migliore è mangiare pesci d’acqua dolce ben cotti, oppure, se si vuole mangiarli crudi, congelarli prima di metterli in tavola. In aggiunta a ciò, è opportuno evitare la contaminazione fecale della superficie del suolo, lavarsi le mani dopo aver manipolato oggetti potenzialmente contaminati, oppure indossare guanti protettivi. 

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